venerdì 3 agosto 2012

JP Den Tex
American Tune
[
Comme Les Chansons  2009
]



Ci sono dischi che ti incuriosiscono già dalla copertina, ed American Tune di JP Den Tex appartiene di diritto a questa categoria. La fotografia in bianco e nero di un viso segnato da quelle che oggi, con un eccesso di buonismo, vengono definite "rughe d'espressione". Null'altro, ma è già sufficiente a farci domandare chi sia questo tizio dal viso vissuto e dal sorriso sornione. Se poi, benedetto San Google, si scopre che il tizio in questione, pur muovendosi all'interno del movimento Americana, è nativo di Amsterdam, la curiosità non può che aumentare. American Tune, seguito del precedente Bad French edito nel 2007, racconta la storia di uno scrittore europeo che, trasferitosi momentaneamente a New York con l'intento di raccogliere materiale per un nuovo libro, si interroga sull'essenza del "Sogno Americano" e su quanto ancora sia presente nella cultura americana e, nella speranza di trovare risposta alle proprie domande, parte alla volta di San Francisco. Al termine del proprio pellegrinare lo scrittore, alter ego di JP, non troverà le risposte che cercava ma, inaspettatamente, la chiave per meglio comprendere la propria solitudine esistenziale.

L'esordio del disco, The Dreamer, è ottimo. Sostenuto da un'efficace, anche se già sentita, linea di basso ed impreziosito da una slide che mette subito in chiaro quale sia la direzione geografica cui guarda la musica del nostro, il brano entra immediatamente in circolo ed è un ottimo biglietto da visita. Se il primo brano colpisce immediatamente, il resto del disco cresce piuttosto lentamente (non che sia un difetto), e se qualche soluzione sonora in un primo momento non convince del tutto, successivi e più attenti ascolti dimostrano che, al contrario, è funzionale all'economia del lavoro. Mi riferisco in particolare ai cori maschili di When I'm Down, di Bowbow e di Vagabond Heart, al David Bowie anni '80 che pare fare capolino tra le pieghe del ritornello di Down & Out In Phoenix e ad un arrangiamento forse un po' troppo caramelloso in Timeless. Il meglio di sé, comunque, JP Den Tex lo dà quando, tirando una linea retta che attraversa l'oceano, riesce a trovare un adeguato equilibrio tra le proprio radici europee ed un'evidente voglia di America. Significative in tal senso sono Mon Désir Noir e Un Amor Fou à San Francisco, brani nei quali un accorto uso della lingua francese dimostra quale sia la parte di Vecchio Continente che musicalmente intriga maggiormente il nostro "americanolandese", sensazione peraltro confermata dall'utilizzo di una fisarmonica dall'inconfondibile sapore parigino in Love So Helpless.

Se il disco, durante il suo sviluppo, riesce a fondere ed a fare convivere vecchio e nuovo continente, l'ultimo brano del disco ribadisce con forza che i miti musicali del nostro si trovano decisamente oltreoceano. Il compito di chiudere il disco (ed il cerchio) è infatti delegato ad una più che dignitosa versione cajun di We'll Sweep Out The Ashes, con il nostro a fare le veci del mai troppo compianto Gram Parsons ed una oscura (almeno per noi) cantante olandese, tale Vera Van Der Peel, a fare le veci di Emmylou Harris. Nomi, va da se, talmente ingombranti da rendere impossibile ogni paragone, che infatti non farò. Ma nomi che la dicono tutta sull'amore che JP Den Tex nutre nei confronti della "nostra" musica.
(Silvano Terranova)

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