American Tune
[Comme Les Chansons 2009]
Ci sono dischi che ti incuriosiscono già dalla copertina, ed American
Tune di JP Den Tex appartiene di diritto a questa categoria. La
fotografia in bianco e nero di un viso segnato da quelle che oggi, con un eccesso
di buonismo, vengono definite "rughe d'espressione". Null'altro, ma è già sufficiente
a farci domandare chi sia questo tizio dal viso vissuto e dal sorriso sornione.
Se poi, benedetto San Google, si scopre che il tizio in questione, pur muovendosi
all'interno del movimento Americana, è nativo di Amsterdam, la curiosità non può
che aumentare. American Tune, seguito del precedente Bad French edito nel 2007,
racconta la storia di uno scrittore europeo che, trasferitosi momentaneamente
a New York con l'intento di raccogliere materiale per un nuovo libro, si interroga
sull'essenza del "Sogno Americano" e su quanto ancora sia presente nella
cultura americana e, nella speranza di trovare risposta alle proprie domande,
parte alla volta di San Francisco. Al termine del proprio pellegrinare lo scrittore,
alter ego di JP, non troverà le risposte che cercava ma, inaspettatamente, la
chiave per meglio comprendere la propria solitudine esistenziale.
L'esordio
del disco, The Dreamer, è ottimo. Sostenuto
da un'efficace, anche se già sentita, linea di basso ed impreziosito da una slide
che mette subito in chiaro quale sia la direzione geografica cui guarda la musica
del nostro, il brano entra immediatamente in circolo ed è un ottimo biglietto
da visita. Se il primo brano colpisce immediatamente, il resto del disco cresce
piuttosto lentamente (non che sia un difetto), e se qualche soluzione sonora in
un primo momento non convince del tutto, successivi e più attenti ascolti dimostrano
che, al contrario, è funzionale all'economia del lavoro. Mi riferisco in particolare
ai cori maschili di When I'm Down, di Bowbow
e di Vagabond Heart, al David Bowie anni '80 che pare fare capolino tra
le pieghe del ritornello di Down & Out In Phoenix e
ad un arrangiamento forse un po' troppo caramelloso in Timeless.
Il meglio di sé, comunque, JP Den Tex lo dà quando, tirando una linea retta che
attraversa l'oceano, riesce a trovare un adeguato equilibrio tra le proprio radici
europee ed un'evidente voglia di America. Significative in tal senso sono Mon
Désir Noir e Un Amor Fou à San Francisco,
brani nei quali un accorto uso della lingua francese dimostra quale sia la parte
di Vecchio Continente che musicalmente intriga maggiormente il nostro "americanolandese",
sensazione peraltro confermata dall'utilizzo di una fisarmonica dall'inconfondibile
sapore parigino in Love So Helpless.
Se il disco, durante il suo sviluppo, riesce a fondere ed a fare convivere
vecchio e nuovo continente, l'ultimo brano del disco ribadisce con forza che i
miti musicali del nostro si trovano decisamente oltreoceano. Il compito di chiudere
il disco (ed il cerchio) è infatti delegato ad una più che dignitosa versione
cajun di We'll Sweep Out The Ashes, con il
nostro a fare le veci del mai troppo compianto Gram Parsons ed una oscura (almeno
per noi) cantante olandese, tale Vera Van Der Peel, a fare le veci di Emmylou
Harris. Nomi, va da se, talmente ingombranti da rendere impossibile ogni paragone,
che infatti non farò. Ma nomi che la dicono tutta sull'amore che JP Den Tex nutre
nei confronti della "nostra" musica.
(Silvano Terranova)
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