JOE ELY – LETTER TO LAREDO
Quando nel 1996 uscì, in poche coraggiose
sale, il film di Paul Auster e Wayne
Wang “Blue in the face”, sorta di progetto parallelo di “Smoke”, il titolo (che
si riferisce al fatto che nel film gli attori, tra i quali anche Madonna e Lou
Reed, parlano incessantemente fino a diventare, per l’appunto, cianotici) mi
fece immediatamente pensare alla frase “Sang ‘til my lips turned blue”
contenuta in “All just to get to you”,
la canzone che apriva lo splendido “Letter to Laredo” di Joe Ely, uscito appena
pochi mesi prima.
Ma i testi delle canzoni di Joe
Ely, si sa, raramente sono dei fiumi di parole in piena e no, non ci sono
labbra blu o visi cianotici ad accompagnare idealmente queste border songs alla
loro conclusione. Se proprio vogliamo trovare in Letter To Laredo qualcosa di
blu dobbiamo cercare nei polpastrelli di Teye, oscuro chitarrista flamenco olandese.
Blu perché tale doveva essere il colore dei succitati polpastrelli dopo le dimostrazioni
di virtuosismo che possiamo ascoltare nel disco, e blu perché blu è il colore
della malinconia, che del flamenco è principale nutrimento.
Se le direttrici musicali dei
precedenti lavori di Ely si collocavano nell’ambito di un country rock
piuttosto canonico, sebbene lontano mille miglia dai suoni modaioli di Nashville,
Letter To Laredo ne sposta l’ideale collocazione in quella linea di confine che
separa il Texas dal Messico.
Ad accompagnare Joe in questo
affascinante viaggio musicale troviamo, insieme ad un manipolo di ottimi
musicisti (molti dei quali accompagnano il cantante da tempo), anche un paio di
vecchi amici dello stesso: Bruce Springsteen, che presterà la propria voce per
il brano iniziale (la muscolosa “All Just To Get To You”) e per quello finale (“I’m
A Thousand Miles From Home”, autentico capolavoro del disco) e Jimmie Dale
Gilmore (titolare insieme allo stesso Ely ed a Butch Hancock della premiata
ditta Flatlanders), che armonizzerà con la propria voce “I Saw It In You”.
Anche il restante terzo dei
Flatlanders, Butch Hancock per l’appunto, dà il proprio contributo al disco
firmando “She Finally Spoke Spanish To Me”, curiosa autoreferenziale risposta a
quella “She Never Spoke Spanish To Me”,
da lui scritta e peraltro cantata dallo stesso Ely nel suo disco d’esordio del
1977.
Se il brano di Hancock è bello ma
non memorabile, lo stesso non si può dire di “Gallo Del Cielo”, straordinaria
canzone di disperazione e galli da combattimento uscita dalla penna di Tom
Russell (era su Poor Man's Dream) che proprio in Letter To
Laredo, grazie anche all’apporto vocale di Raul Malo, alla chitarra di Teye ed
alla suggestiva fisarmonica di Ponty Bone, trova la sua versione definitiva.
Insieme a questi brani, per un motivo
o per un altro maggiormente rappresentativi dello spirito del disco, scorre,
con la lentezza del Rio Grande, una lunga sequela di piccoli gioielli acustici
attraverso i quali Ely, dimostrando di avere assimilato alla perfezione la
lezione di Cormac McCarthy (che Ely ringrazia pubblicamente nei credits), ci
racconta, spesso con poche ma efficacissime immagini, le sue storie di confine.
Dall’incedere gitano di “Run
Preciosa” al tex-mex di “Saint Valentine” e di “Ranches And Rivers”, dalla
malinconica nostalgia di chi, per un motivo o per un altro, fugge dai propri
luoghi e dai propri affetti (raccontata magistralmente nella title track ed in
“I’m A Thousand Miles From Home”) al country più tradizionale di “I Ain’t Been
Here Long”, ogni singola nota ed ogni singola parola in Letter To Laredo ci
parlano di quella linea ideale (ma mica tanto, essendo percorsa per buona parte
da un alto muro sorvegliato a vista) che non si limita a separare due popoli
ma, anche e soprattutto, a cercare di tenerne lontano uno, decisamente più
affamato dell’altro. Riguardo questo aspetto “politico” della forzata vicinanza
tra Stati Uniti e Messico Ely decide di mantenere, in Letter To Laredo, un
profilo decisamente basso. Nessuna denuncia, nessun racconto di attraversamenti
notturni della linea di confine (altri lo hanno fatto o lo faranno, penso per
esempio al Bruce Springsteen di “Across The Border” o di “Matamoros Banks”), ma
ciò non significa che la disperazione e la fuga da una condizione di vita
insostenibile siano stati lasciati fuori dalle canzoni di Letter To Laredo:
basta mettere a fuoco in un punto indefinito posto appena qualche metro dietro
le parole che compongono i testi. Perché dietro ogni uomo che fugge dalla legge
per un crimine non commesso, dietro ogni uomo che si trova a miglia di distanza
dalla propria casa nel tentativo di raggiungere una qualsivoglia terra promessa,
dietro ogni uomo che ruba qualcosa (sia anche un gallo da combattimento con le
ali rotte ed un occhio storto) per ricomprare la terra che era del proprio
padre, dietro tutte queste persone non ci può che essere un’unica, immensa
disperazione.
Nessun commento:
Posta un commento